di Giovanni Buscema
Viviamo immersi nel rumore.
Di motori, di sirene, di parole che si accavallano.
Di notifiche che ci inseguono anche nei momenti di silenzio.
È la colonna sonora invisibile delle nostre vite — tanto costante da non accorgercene più.
Eppure quel rumore ci cambia, ci consuma, ci ammala.
Come manager della sostenibilità ho imparato che esistono forme di inquinamento che non si vedono, non si toccano, non si annusano. Sono quelle che agiscono in silenzio — o, in questo caso, nel frastuono. Il rumore è una di esse: un inquinamento invisibile ma reale, che colpisce la salute umana, la biodiversità e la qualità della vita.
Viviamo in un mondo che misura la CO₂, ma non la quantità di rumore che respiriamo ogni giorno.
Abbiamo imparato a parlare di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Ma dimentichiamo quella sensoriale: il benessere dei nostri sensi, la qualità del suono che abitiamo ogni giorno.
Il rumore non è un fastidio, è una forma di stress cronico. Influisce sul sonno, sul sistema nervoso, sul cuore, sull’equilibrio emotivo. Ogni giorno milioni di persone convivono con livelli di rumore superiori a quelli raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A lungo andare, il nostro corpo reagisce come se fosse in uno stato di allerta costante: aumenta il cortisolo, cresce la pressione, il battito accelera. La mente si stanca, anche quando il corpo è fermo.
Le grandi città sono i centri più esposti: traffico, cantieri, mezzi pubblici, aeroporti. Ma l’inquinamento acustico non è solo urbano. È una minaccia globale, capace di raggiungere ogni spazio abitato — e non solo da noi.
Il cervello umano è progettato per percepire il suono come segnale di sopravvivenza. Per questo un rumore improvviso attiva immediatamente una risposta di difesa: il cuore batte più forte, il respiro cambia, i muscoli si tendono. Ora immaginate di vivere costantemente in questa condizione. È ciò che accade a milioni di persone che vivono in aree ad alta densità sonora: la mente è costantemente sotto pressione, e a poco a poco lo stress diventa la nuova normalità.
Negli ultimi anni, studi scientifici hanno dimostrato un legame diretto tra esposizione cronica al rumore e aumento di ansia, irritabilità, disturbi del sonno e depressione.
Il rumore non solo ci disturba, ma riduce la nostra capacità di pensare, di concentrarci, di essere presenti.
Ci separa dal mondo che ci circonda.
Alcune città europee stanno riscoprendo il valore del silenzio.
A Copenaghen le strade sono pavimentate con materiali fonoassorbenti e i mezzi pubblici sono elettrici.
A Barcellona il “Piano del Paesaggio Sonoro” tutela le zone di quiete e mappa i punti critici del rumore urbano.
A Zurigo è stato introdotto un “Piano del Silenzio Urbano”, che integra verde, mobilità sostenibile e regolamentazione acustica.
Sono segnali di una nuova consapevolezza: il silenzio non è un lusso, è un diritto.
Un diritto che dovrebbe essere garantito a tutti, come l’aria pulita o l’acqua potabile.
C’è però un altro tipo di rumore di cui si parla ancora troppo poco: quello che non sentiamo, ma che il mare subisce ogni giorno.
Il traffico marittimo mondiale — fatto di navi commerciali, petroliere, traghetti e crociere — genera onde sonore che si propagano sott’acqua per centinaia di chilometri.
Questo rumore, continuo e a bassa frequenza, interferisce con la vita marina: le balene smettono di comunicare, i delfini si disorientano, i pesci modificano i percorsi di migrazione.
Il mare, da sempre la voce più antica della Terra, oggi chiede solo di poter essere ascoltato, non coperto.
L’Agenzia Europea per l’Ambiente stima che oltre il novanta per cento dei mari europei sia esposto a rumore subacqueo di origine antropica.
È un inquinamento invisibile, ma devastante per gli ecosistemi.
Eppure, anche in questo campo, qualcosa si muove: progetti europei come LOWNOISER, coordinato dal CNR, stanno sviluppando tecnologie per ridurre il rumore delle eliche e delle propulsioni navali.
La sostenibilità del futuro dovrà essere anche acustica, non solo energetica o ambientale.
Ridurre il rumore non significa azzerare la vita sonora, ma restituirle armonia.
Oggi la tecnologia ci offre strumenti capaci di riportarci equilibrio: sensori acustici intelligenti, pavimentazioni che assorbono il rumore, veicoli silenziosi, pareti verdi che respirano insieme alle città.
Ma la tecnologia, da sola, non basta. Serve una cultura dell’ascolto.
Serve imparare a usare il suono in modo consapevole: abbassare il volume, scegliere mezzi silenziosi, rispettare gli spazi pubblici.
Il rumore non è un destino: è una scelta collettiva.
Anche il rumore può essere letto attraverso il mio Teorema della Sostenibilità, nei tre lati ESG:
Lato ambientale: il rumore è un agente inquinante come la CO₂ o le polveri sottili.
Lato sociale: il benessere acustico è una forma di equità, perché il rumore colpisce soprattutto chi vive nelle aree più svantaggiate.
Lato governance: servono piani d’azione, mappe acustiche, trasparenza dei dati e cooperazione tra istituzioni e cittadini.
Il silenzio non è solo un fatto di salute, ma di giustizia ambientale.
Forse la vera rivoluzione non sarà costruire di più, ma ascoltare meglio.
Imparare a vivere nel rispetto dei suoni e dei silenzi del mondo.
Perché anche il silenzio è energia: quella che ci restituisce equilibrio, salute e bellezza.
Il silenzio non è vuoto, è presenza.
È la misura invisibile dell’equilibrio tra l’uomo e il pianeta.
E forse la sostenibilità del futuro comincerà proprio da qui: dal coraggio di restare in silenzio.
Fonti e dati
European Environment Agency (EEA, Environmental Noise in Europe 2025);
World Health Organization (WHO, Environmental Noise Guidelines for the European Region, 2018);
EEA (Underwater Noise Pollution in Europe’s Seas, 2024);
CNR (EU Project LOWNOISER: Reducing Underwater Noise from Ships, 2024);
University College London (Environmental Noise and Mental Health Study, 2022);
European Commission (Environmental Noise Directive 2002/49/EC, 2002).